Questa domanda richiede una presa di posizione. Quale posizione ognuno e ognuna occupa nel mondo?

Il mondo di ora in questo tempo chiede forse con urgenza un racconto non omologato ai bisogni e alle storie dell’occidente fatte per rassicurare, comprimere e non per esprimere e leggere davvero di cosa in questi anni si tratta…

Guerra, devastazione ambientale, estinzione, aumento esponenziale della povertà, politica mondiale di discriminazione ed esclusione, razzismi di stato, un’economia che uccide.

Come abitare il mondo in rovina? Il tempo di ora ha subìto una ulteriore accelerazione che revoca le istituzioni e produce degrado e micidiali identitarismi in società normate, proprietarie.

Il dominio dell’occidente ha prodotto questo disastro. La mutazione antropologica è già avvenuta. Dire la verità del mondo è partecipare della sua crisi. Non è questione di catastrofismo ma di riconoscere che questo è un tempo della fine.

Il tempo della fine non è la fine dei tempi, è piuttosto il tempo che resta, la differenza temporale tra questa e le generazioni precedenti, ed è forse questa differenza che abitiamo.

La revoca delle istituzioni corrisponde a questa differenza generazionale.

Costituire una forma di vita alternativa implica la crisi, che è questa urgenza: disfare i luoghi della formazione e disfarsi dell’informazione globale unilaterale; generare cura e relazioni a partire dai corpi; fare esperienza del mondo sottraendolo al consumo, al tempo unico della produzione e del lavoro, fare comune uscendo da sè. 

Il presidente della Colombia Gustavo Petro di recente ha dichiarato che “la barbarie del consumo basato sulla morte di altri ci porta ad un aumento senza precedenti del fascismo, e dunque alla morte della democrazia e della libertà. Questa è barbarie, un 1933 globale.”

Non si tratta di proporre una ricetta di vita ma di considerare la vita che c’è con un altro sguardo. Forse si cerca di risalire allo sguardo povero, allo sguardo “vero”, allo sguardo nativo in cui si può sempre vivere la vita comune.

Mettere in questione sé come soggetto e assumere il divenire, farsi generare dall’ “altro” è forse la prossimità comunitaria che apre il mondo ad una ri-creazione.

Separare l’esperienza dalla storia dei poteri a cui si è appartenuti o si appartiene dal proprio essere: la comune dal comunismo, il cristianesimo primitivo dalla dottrina della chiesa, l’istanza messianica del tempo-ora dall’eterno presente che nega qualsiasi inversione, conversione.

Eppure il cristianesimo è crisi (come dice un amico), la comune è un’esperienza di momenti, di stati, di sensibilità che apre l’evento; il linguaggio è un’esperienza da sottrarre al degrado della comunicazione.

Ritrovare una parola è, forse, reinventarla. “Essere nel mondo ma non del mondo”, oggi più di ieri ci consente di assumere una posizione di contestazione, di rifiuto.

D’altra parte è solo per una finzione funzionale a questo mondo collassato che si pratica il dominio su di sé, sugli altri, sulla terra, su animali e piante, mentre emerge la verità singolare dell’esilio permanente. Esilio che è croce e gioia, povertà e felicità di essere senza appartenenze, senza possesso, senza identità in un progetto, in un costume, in una fede.

Maestro Eckhart alla domanda “Perchè vivi?” rispondeva “Non lo so, ma mi piace vivere”.

Che significa demitizzare le religioni, le istituzioni, i saperi e le culture? Forse risalire ad un tempo originale, ad un senso creaturale che apre il tempo lineare e progressivo al mistero di ciò che ci attraversa “qui e ora”.

Non è tornare indietro a esperienze primigenie. Dipende dall’esperienza che si fa, certo. Ma è proprio il “fare esperienza” che manca e questa mancanza è sostituita da regole, norme etiche, discorsi astratti.

Essere attraversati dalla parola è questa crisi e l’esperienza è qualcosa che “spacca” dentro ed è ingovernabile.

La “vita vera”, la “vita povera”, la vita di verità vissuta dai cinici dal II secolo a.C. al II d.C; oppure la vita comune delle prime comunità cristiane; o la vita di fraternità, la “vita nuda” in cui “tutto è comune”, è forse l’alternativa dello sguardo di Gesù Cristo sul mondo. Ed è nel suo valore storico che questo sguardo e questo Gesù possono essere assunti.

In questo senso la “rinuncia a sé” è ricchezza di una forma di vita, non della vita generica che in quanto tale non ha senso.

Ma non ha senso che sia un’imposizione. Un abbandono, invece; un abbandono alla notte del senso, alla notte della preghiera, all’impossibilità.

Testimonianza di una sconfitta? Si, se vincere significa privare la libertà della sua liberazione. Un fallimento? Si, se fallire apre una rivelazione, o anche se non apre niente.

Nel tempo in cui tutto è “a portata di mano”, vale misurare la distanza tra i desideri, le proprie idee e ciò che ci accade. Dis-appropriare sé non è rinuncia, è far succedere il vuoto e attraverso il vuoto far sì che una passione si accenda.

Ivan Illich, prete anarchico, teologo e filosofo della cultura in una conversazione sul tema della contingenza esemplava così la differenza tra l’epoca in cui il mondo era “nelle mani di Dio” e la modernità: – Perché Dio ha creato il mondo? Perché ne aveva voglia. E aggiungeva che la parola ispanica per “voglia” è gana; gana è passione viscerale, bruciante, che eccede la volontà.

A questo amore che non è ultraterreno o stratosferico, ma reale e sensibile, amore di passione, di corpi va il senso intero di ciò che siamo e di ciò che diveniamo.

Questo amore come ogni amore è sofferenza, è carne che brucia, è sorpresa, è estasi.

Il prossimo che non è il vicino di casa, né l’amica o l’amico del cuore è, come dice un altro amico, il samaritano collettivo, la sorte, la sfida.

Contraddizione: Papa Francesco nella Fratelli tutti scrive dell’amore politico. Quando mai un papa ha parlato così? E tuttavia lo fa, e non può essere che così, all’interno della chiesa in cui d’altra parte la pretesa universalista è enorme.

Ma Papa Francesco sta facendo una rivoluzione, da solo. Destituire l’universale; è forse questa l’istanza di liberazione da continuare a sostenere e praticare. Essere segno di contraddizione, perché “sono forte quando sono debole”.

 

Villa Pamphili

11/4/2024




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