Appunti per un'archeologia del presente
Il tempo della fine non è la fine dei tempi ma è il “tempo che resta” in cui si manifestano in superfice verità fino ad oggi celate, non volute, stracciate e dismesse.
Ci si dispone sulla soglia. Dalla posizione in cui siamo ciò che giunge al presente proviene da un passato che ancora ci riguarda. Da questa posizione relativa siamo partecipi della devastazione della terra, della guerra, degli incentivi a valorizzare la ricchezza come elemento di discriminazione antropologica mentre assistiamo all’esproprio delle possibilità comuni, alla chiusura identitaria, alla vita reazionaria.
Foucault indicava il limite delle ricerche archeologiche nell’impossibilità di superare l’analisi dei discorsi all’esterno dei quali preme il sapere dei dispositivi di potere che quei discorsi giustificano e in cui di organizzano.
Sarà quindi la genealogia dei dispositivi di sapere-potere ad evidenziare gli intrecci tra discipline, scienze e tecnologie di governo delle popolazioni, mentre è sul piano dei modi di formazione della soggettività che emergono i rapporti storici tra soggetto e verità.
L’estensione dell’archeologia ci consente di far emergere dai rapporti di sapere-potere, la forma dei dispositivi di governo della vita, le genealogie delle lotte e le strategie impiegate, i rapporti e le forme di relazione tra soggettività e verità nella nostra epoca storica.
Il profilo di una ricerca archeologica per un verso guarda ad una storia della verità sempre possibile e ai rapporti tra saperi, poteri e soggettività; per altro verso evolve in una pratica genealogica che contrasta il presente con la presenza, indagando antropologie impreviste, soglie post-umane, dispositivi di cattura della vita.
La costituzione storica della soggettività emerge negli apparati di cattura di affetti e desideri, speranze e aspettative, stili ed estetiche, giocando la libertà e concedendo l’autonomia, ma ribadendo la subordinazione e inducendo la reazione al contrasto e all’anomalia, al singolare e al composto, all’estraneità e alla mancanza. «Come se avessimo paura di concepire l’Altro all’interno del tempo del nostro pensiero».
L’ “al di là” dell’archeologia è in un certo senso contenuto all’interno della pratica archeologica, ed è la sequenza genealogica che permette di passare dall’analisi delle formazioni discorsive all’indagine dei dispositivi in rapporto alla soggettività; d’altra parte l’archeologia evolve all’esterno, dall’elaborazione dei dispositivi di potere al campo di problematizzazioni storico-filosofiche dispiegato da Enzo Melandri e ottiene una specificità filosofica in Agamben come archeologia filosofica.
Nell’evoluzione dell’archeologia il presente è un modo di indagare il mondo in cui si risale ai punti di insorgenza dei fenomeni; ed è una pratica storico-filosofica che individua il presente, nei modi, gli usi, i discorsi, i documenti e gli stili al di là dell’attualità.
Giornalismo filosofico
Il metodo potrebbe essere quello dell’indagine, della cronaca, dell’inchiesta, del racconto dei modi in cui i diversi regimi di pensiero si articolano nelle diverse epoche storiche. Ma anche la ricostruzione delle discendenze e delle stratificazioni del soggetto filosofo come soggetto storico situato, come soggetto in conflitto tra passione ed azioni, come soggetto esclusivamente maschile e come evento marginale in rapporto alle tecnologie di potere. Nelle genealogie si rintracciano gli apriori storici di un’epoca. La domanda è che cosa è in gioco non solo sul piano linguistico, nell’uso comune di questi insiemi?
Archeologia del presente
É l’archivio in cui è registrato lo stato del mondo. Può assumere la qualità del vero a cui è indotto il pensiero. Il tema della verità è la qualità storica (storico-politica) dell’archeologia.
Oltrepassare la metafisica. Una conversione. Ritornare all’esperienza originaria di una sapienza che parlava, argomentava, consigliava. Una sapienza in cui logos e fusis si richiamavano in una tagliente opposizione.
Ma perchè fare un diario che sarebbe l’ennesima cronaca soggettiva della realtà? Per scoprire la verità del mondo attraverso il proprio sguardo? Oppure per alimentare una scrittura che sarebbe solo un esercizio di stile che inorgoglisce l’autore, l’autrice? L’opera inutile che si apprezza per la bellezza della lingua?
L’archivio è un’altra cosa. Anzitutto bisogna metterci dentro le mani, sporcarsele e sentire il tanfo delle menzogne e dei poteri, dell’oppressione e delle ingiustizie; inoltre dalla melma bisogna portare alla luce le colpe e il giudizio per bruciarle nel racconto: infine rendere leggibile l’intorno non detto dell’enunciazione, l’alone segreto che circonda i singoli enunciati.
D’altra parte l’archivio è anche l’eterogeneità materiale che non vuole essere espressa, che resiste al gioco dialettico della ragione discorsiva e che non si offre all’indagine documentale, nè all’elaborazione sistematica. Rimane allora un sapere inconoscibile la cui comprensione consiste nella presenza: è l’effetto storico di ciò che si è detto e di ciò che si è fatto ed è la memoria del presente.
La scrittura dei quaderni mette in questione il gesto che dovrebbe realizzarli. Segna una soglia di senso tra l’opera e il vuoto, il dubbio e il qualcosa.
Possiamo leggere e replicare a quanto condividiamo senza bisogno di produrre la nostra versione del mondo. Possiamo aver già rotto con una realtà infame senza informare nessuno del nostro esilio. Possiamo evitare di contrastare l’indifferenza e la violenza e dedicarci ad un’altra opera di intervento o di ricerca immediata.
Ma la ragione della composizione del tempo in parole e in immagini è nell’urgenza di una vocazione che è bisogno di rompere la cortina dell’“io” che ci separa dal mondo e ci ripara dal degrado, ed esporci ad una verità imprevedibile, ad una concreta esigenza, ad un’esperienza di lotta.
Non bisogna per forza sapere se questo basta, ma tale è la forma di sapere che, messa in questione, libera l’avvenire da ciò che siamo. In questo senso la forma della cronaca storico-filosofica è adeguata a questa esigenza.